La guerra tra Israele e Gaza, oltre a rappresentare una tragedia umana, sta generando un disastro ambientale senza precedenti, come evidenziato dallo studio “A Multitemporal Snapshot of Greenhouse Gas Emissions from the Israel-Gaza Conflict.” Pubblicato su Social Science Research Network (SSRN), il rapporto è il risultato della collaborazione tra Benjamin Neimark della Queen Mary University of London, Patrick Bigger di Climate and Community Project – CCP, Frederick Otu-Larbi e Reuben Larbi della Lancaster University.
Il documento sottolinea che nei primi 60 giorni della guerra sono state rilasciate nell’atmosfera ben 281mila tonnellate di biossido di carbonio (CO2). Questo contributo alla crisi climatica globale supera addirittura le emissioni annuali di una ventina di paesi tra i più vulnerabili ai cambiamenti climatici. Il report evidenzia che tali stime sono estremamente conservative e non tengono conto di molteplici fattori difficilmente quantificabili, come le emissioni di gas metano. Pertanto, la reale quantità di emissioni potrebbe essere notevolmente superiore a quanto riportato. Considerando anche le infrastrutture belliche costruite da entrambe le fazioni, inclusi i tunnel di Hamas e il “Muro di ferro” israeliano, le emissioni totali superano quelle di 33 paesi. I costi legati al carbonio per la ricostruzione di Gaza sono enormi.
Le stime indicano che il 99% delle 281.000 tonnellate di CO2 equivalente emesse nei primi 60 giorni è attribuibile ai bombardamenti israeliani e all’invasione terrestre di Gaza, causata dall’attacco di Hamas agli insediamenti israeliani nel Negev. Tuttavia, lo studio potrebbe sottostimare il reale impatto climatico, considerando solo attività ad alta intensità di carbonio.
L’analisi, pur essendo ancora da sottoporre a revisione paritaria, comprende le emissioni di CO2 dagli aerei, dai serbatoi e dal carburante di veicoli israeliani, nonché quelle prodotte dalla fabbricazione ed esplosione di bombe, artiglieria e razzi. Significativa è la quota di emissioni attribuibile agli aerei cargo statunitensi, responsabili del 50% delle emissioni totali.
Mentre i razzi di Hamas hanno generato circa 713 tonnellate di CO2 nello stesso periodo, evidenziando l’asimmetria degli apparati bellici, il rapporto condivide una stima preliminare del costo climatico della guerra a Gaza. Questo scenario si sviluppa in un contesto in cui le forze armate globali sono chiamate a una maggiore responsabilità riguardo alle emissioni di gas serra.
Benjamin Neimark della Queen Mary, University of London, afferma che il rapporto è solo un’istantanea dell’impronta militare più ampia della guerra. Il menefreghismo ambientale delle forze armate, che sembrano inquinare impunemente, deve finire al più presto in modo da essere impegnate per affrontare la crisi climatica.
Un precedente studio suggerisce che, includendo le emissioni dell’intera catena di approvvigionamento bellico, l’impronta di carbonio della guerra di Gaza potrebbe essere da 5 a 8 volte superiore. Inoltre, le emissioni derivanti dalla ricostruzione di 100.000 edifici danneggiati produrranno almeno 30 milioni di tonnellate di gas serra, superando le emissioni di molte nazioni, tra cui la Nuova Zelanda, Sri Lanka, Libano e Uruguay.
David Boyd, relatore speciale dell’ONU per i diritti umani e l’ambiente, commenta che la ricerca evidenzia l’ampia portata delle emissioni militari, dall’inizio della guerra fino alla ricostruzione post-guerra. L’innalzamento del livello del mare, la siccità e il caldo estremo minacciano già le forniture idriche e la sicurezza alimentare in Palestina, aggravate dalla catastrofe ambientale e umanitaria a Gaza.
La Cop28 di Dubai ha inserito all’ordine del giorno la guerra, la sicurezza e la crisi climatica, ma non ha prodotto passi significativi verso una maggiore trasparenza e responsabilità delle forze armate e dell’industria militare. La delegazione israeliana ha persino promosso la sua tecnologia climatica mentre il paese bombardava Gaza.
Hadeel Ikhmais dell’Autorità palestinese per la qualità ambientale sottolinea che, oltre alle difficoltà causate dall’occupazione, è difficile affrontare il cambiamento climatico senza accesso all’acqua, alla terra e alla tecnologia senza il permesso di Israele. La guerra ha accentuato ulteriormente la situazione, con terreni agricoli, infrastrutture energetiche e idriche contaminati o distrutti.
Il rapporto conclude, sottolineando l’urgente necessità di una rendicontazione obbligatoria delle emissioni militari attraverso l’Unfccc, riconoscendo l’importanza di affrontare l’impatto ambientale della guerra. La comunità internazionale deve agire con determinazione per porre fine a questa catastrofe climatica e umanitaria inaccettabile.
Secondo il rapporto “Estimating the Military’s Global Greenhouse Gas Emissions” realizzato da CEOBs e SGR, le forze armate contribuiscono a quasi il 5,5% delle emissioni globali di gas serra ogni anno. Questa percentuale supera addirittura la somma delle emissioni generate dalle industrie dell’aviazione e della navigazione. In termini di impronta di carbonio a livello mondiale, la presenza militare rappresenta la quarta fonte più significativa, posizionandosi dopo Stati Uniti, Cina e India, anche senza considerare i picchi di emissioni associati ai conflitti.